
DI GIULIA VOLPE
I risultati di uno studio di fase 3 sponsorizzato dal National Cancer Institute (NCI) e guidato dall’ECOG-ACRIN Cancer Research Group (ECOG-ACRIN) sono stati presentati durante la sessione orale dedicata agli abstract late breaker al Meeting ASH 2018. Lo studio ha valutato ibrutinib in combinazione con rituximab rispetto a un regime chemioterapico con fludarabina, ciclofosfamide e rituximab (FCR) in pazienti con leucemia linfatica cronica (LLC) non trattati in precedenza e di età inferiore ai 70 anni. A seguito di un follow-up di quasi 3 anni, questi dati hanno mostrato che la combinazione di ibrutinib più rituximab ha prolungato significativamente la sopravvivenza libera da progressione (PFS) e la sopravvivenza globale (OS) rispetto a FCR.
I dati dello studio di fase 3 iLLUMINATE (PCYC-1130) sono stati anche presentati nel corso di una sessione orale, con pubblicazione concomitante su The Lancet Oncology. I risultati mostrano che la combinazione di ibrutinib e obinutuzumab migliora in modo significativo la PFS rispetto a clorambucile e obinutuzumab nei pazienti LLC di diagnosi recente. Questi dati di recente hanno supportato la presentazione di una domanda di variazione di tipo 2 all’Agenzia europea per i medicinali (EMA) per richiedere l’autorizzazione all’uso ampliato di ibrutinib in combinazione con obinutuzumab in adulti con LLC non trattati in precedenza.
I dati dello studio di fase 1b/2 ibrutinib e il relativo studio di estensione (PCYC-1102, PCYC-1103) con un follow-up fino a sette anni su pazienti con LLC recidivante/refrattaria (R/R) di nuova diagnosi, hanno inoltre dimostrato benefici durevoli e a lungo termine in termini di sopravvivenza a seguito del trattamento monoterapico, e costituiscono il follow-up più lungo per un inibitore della tirosina chinasi di Bruton (BTK) nella CLL.
“I risultati degli studi iLLUMINATE ed ECOG-ACRIN dimostrano una sopravvivenza libera da progressione estremamente prolungata per le relative combinazioni basate su ibrutinib rispetto ai regimi chemio-immunoterapici comunemente utilizzati”, ha affermato la Moreno, Consulente ematologa dell’Hospital de la Santa Creu i Sant Pau, Universitat Autònoma de Barcelona, Barcellona, Spagna. “Questi regimi non chemioterapici rappresentano un progresso sulla valutazione della modalità di gestione dei pazienti, compresi quelli più giovani e con LLC ad alto rischio, e offrono il potenziale per risolvere il compromesso fra efficacia e tossicità per i pazienti”.
L’analisi parziale, con un follow-up mediano di 33,4 mesi, è stata effettuata su 77 eventi PFS e 14 decessi. Ibrutinib più rituximab ha migliorato significativamente la PFS rispetto a FCR (HR: 0,352; [CI, intervallo di confidenza] 95%: 0,223-0,558; p<0,0001); è stato superato il limite predeterminato per la PFS. Anche il braccio di trattamento con ibrutinib più rituximab ha mostrato un miglioramento della OS (HR: 0,168; CI 95%: 0,053-0,538; p=0,0003, limite predeterminato per superiorità p=0,0005).
In un sottogruppo di analisi della PFS, ibrutinib più rituximab ha mostrato il prolungamento della PFS indipendentemente da età, sesso, condizioni generali, fase della malattia o presenza/assenza dell’anomalia citogenetica delezione 11q23. Con il follow-up corrente anche ibrutinib più rituximab è risultato superiore rispetto a FCR nei pazienti senza mutazione di IgHV (HR: 0,262; CI 95%: 0,137-0,498; p<0,0001), ma non nei pazienti con mutazione di IGHV (HR: 0,435; CI 95%: 0,140-0,1350; p=0,07).2
Eventi avversi (EA) di grado 3 o 4 correlati al trattamento sono stati osservati nel 58% dei pazienti trattati con ibrutinib più rituximab e nel 72% dei pazienti trattati con FCR (p=0,0042). Il braccio FCR è stato associato più di frequente a neutropenia di grado 3 e 4 (FCR: 44% rispetto a ibrutinib più rituximab: 23%; p<0,0001) e complicanze infettive (FCR: 17,7% rispetto a ibrutinib più rituximab: 7,1%; p<0,0001).