
In pazienti con linfoma di Hodgkin in stadio avanzato il trattamento di prima linea con brentuximab vedotin, anticorpo monoclonale anti-CD30 coniugato a farmaco, più una chemioterapia costituita da doxorubicina, vinblastina e dacarbazina (AVD) migliora in modo significativo la sopravvivenza libera da progressione (PFS) rispetto all’attuale trattamento standard, riducendo del 23% il rischio di progressione, decesso o necessità di una terapia aggiuntiva.
È quanto emerso da un recente studio presentato sulle pagine del New England Journal of Medicine che conferma efficacia e sicurezza di brentuximab vedotin, già approvato per il trattamento del linfoma di Hodgkin recidivante o refrattario e del linfoma cutaneo a cellule T CD30-positivo in pazienti precedentemente sottoposti ad almeno una terapia sistemica.
Lo studio, che ha visto la partecipazione di ben 218 centri di 21 Paesi distribuiti in tutto il mondo, ha coinvolto 1334 pazienti con linfoma di Hodgkin in stadio III o IV che non erano stati sottoposti in precedenza ad alcuna terapia e avevano un performance status ECOG pari a 2 o più basso. L’età del campione era compresa fra 18 e 83 anni, l’età media era di 36 anni e il 58% dei partecipanti era di sesso maschile.
I pazienti sono stati assegnati casualmente e in rapporto 1: 1 al trattamento con brentuximab vedotin 1,2 mg/kg più AVD (doxorubicina 25 mg/m2, vinblastina 6 mg/m2, dacarbazina 375 mg/m2) o il regime ABVD (doxorubicina 25 mg/m2, bleomicina 10 unità/m2, vinblastina 6 mg/m2, dacarbazina 375 mg/m2) ev nei giorni 1 e 15 di cicli di 28 giorni, per un massimo di 6 cicli. I pazienti sono stati seguiti ogni 3 mesi per 36 mesi, poi ogni 6 mesi fino alla chiusura dello studio.
Alla fine della chemioterapia i partecipanti sono stati rivalutati con la TAC e la PET, quindi sono stati seguiti per valutare gli esiti del trattamento.
“L’aspetto unico del linfoma di Hodgkin è che si può avere una prima idea di come funziona il trattamento dopo due cicli, quando è possibile eseguire una PET” , spiega Joseph Connors, primo autore dello studio.
L’endpoint primario del trial era la PFS modificata, definita come il tempo intercorso tra la randomizzazione e la comparsa della progressione, il decesso o il riscontro di una risposta incompleta, seguito dalla successiva somministrazione di una terapia antitumorale, e valutata da una struttura di revisione indipendente. L’endpoint secondario chiave, invece, era la sopravvivenza globale (OS).
Lo studio ha centrato il suo endpoint primario. Infatti, dopo un follow-up mediano di 24,9 mesi, la PFS modificata a 2 anni è risultata significativamente superiore nel braccio trattato con brentuximab vedotin più AVD rispetto al braccio di controllo, trattato con il regime ABVD: 82,1% contro 77,2% (HR 0,77; IC al 95% 0,60-0,98; P = 0,03).
Gli eventi correlati alla PFS sono stati rispettivamente 117 contro 146, di cui 90 contro 102 rappresentati dalla progressione della malattia, 18 contro 22 dal decesso e 9 contro 22 dalla necessità di una terapia antitumorale aggiuntiva (la chemioterapia in 7 casi contro 15 e la radioterapia in 2 contro 7) a causa di una risposta incompleta al trattamento di prima linea.
“La differenza tra i due outcome alla valutazione dei 2 anni è appena inferiore al 5% e documenta che circa un quarto dei pazienti che altrimenti sarebbero andati incontro a un fallimento della terapia primaria sono stati trattati con successo con la nuova combinazione, riducendo ulteriormente la probabilità di andare incontro a una progressione della malattia refrattaria al trattamento” , commenta Connors.
Inoltre, nel gruppo trattato con brentuximab vedotin più AVD, i pazienti che hanno dovuto fare la chemioterapia o una chemioterapia ad alte dosi e il trapianto sono stati il 33% in meno rispetto a quelli trattati con il regime ABVD.
L’analisi ad interim dell’OS ha evidenziato, per ora, una tendenza alla superiorità del regime contenente brentuximab vedotin rispetto al regime standard (HR 0,72; IC al 95% 0,44-1,17; P = 0,19).
La stessa tendenza è stata mostrata anche da tutti gli altri endpoint secondari, il che, secondo gli autori, “rafforza ulteriormente la conclusione che la combinazione brentuximab vedotin più AVD rappresenta un trattamento di prima linea più efficace per il linfoma di Hodgkin avanzato rispetto al regime ABVD”.
Infine, ha riferito Connors, i profili di sicurezza sono risultati coerenti con quelli già noti dei singoli componenti dei regimi testati.
“I risultati dello studio sono particolarmente importanti considerando l’opportunità offerta dalla combinazione di brentuximab vedotin più AVD di somministrare ai pazienti anziani un trattamento di efficacia almeno equivalente a quella del regime ABVD, e di farlo in modo sicuro”, scrivono gli autori nelle loro conclusioni.
I pazienti anziani con linfoma di Hodgkin avanzato, ricordano Connors e i colleghi, rappresentano un gruppo speciale, vista l’incidenza della malattia (circa il 20% di tutti i casi), l’efficacia inferiore del trattamento e la tossicità severa generalmente più alta in questa popolazione, in particolare la tossicità polmonare associata a bleomicina.
“Quando si sceglie il trattamento di prima linea, è importante considerare l’impatto nel corso della vita degli effetti avversi tardivi e a lungo termine derivanti dalla chemioterapia di salvataggio, dalla radioterapia e dal trapianto (tra cui infertilità, tossicità polmonare e cardiaca e tumori secondari)” sottolineano i ricercatori.
Bibliografia. Connors JM, Jurczak W, Straus DJ, et al. Brentuximab vedotin with chemotherapy for stage III or IV Hodgkin’s lymphoma. N Engl J Med 2018;378(4):331-344.