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MDS e β-talassemia, è realtà l’indipendenza da trasfusioni

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L’emancipazione dal continuo bisogno di trasfusioni di sangue sta diventando per la prima volta una realtà concreta per i pazienti colpiti da sindromi mielodisplastiche e beta-talassemia. L’anemia grave, spesso presente in queste patologie, li costringe, da un lato, a frequenti sedute in ospedale per il fabbisogno di globuli rossi, in alcuni casi anche tutte le settimane, dall’altro, ad assumere ogni giorno una terapia ferrochelante per evitare che il ferro in eccesso danneggi organi come cuore, fegato e pancreas.
Oggi per alcuni di questi pazienti si sta delineando una vera e propria rivoluzione nella terapia perché, per la prima volta, una nuova molecola, luspatercept, ha dimostrato di ridurre il numero di trasfusioni necessarie, con un impatto significativo sul decorso clinico e sulla qualità di vita. Luspatercept è un farmaco biologico approvato lo scorso giugno nel trattamento delle due patologie dall’Agenzia Europea del Farmaco (EMA), sulla base di due importanti studi pubblicati sul New England Journal of Medicine. Ai passi in avanti nel trattamento di queste malattie ematologiche è dedicata una conferenza stampa virtuale. 
“Le sindromi mielodisplastiche sono un gruppo eterogeneo di tumori del sangue, in cui le cellule del midollo osseo non riescono a diventare cellule perfettamente funzionanti e sane ma si fermano a uno stadio immaturo”, afferma Valeria Santini, Professore di Ematologia all’Università di Firenze e Responsabile MDS Unit dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi di Firenze. Sono definite malattie clonali perché il loro sviluppo è dovuto ad una singola cellula che, sfuggendo ai meccanismi di controllo, si moltiplica, dando origine a cellule alterate nella forma e nella funzionalità. Le sindromi mielodisplastiche, nei casi più gravi, possono evolvere in leucemia mieloide acuta, un tumore più aggressivo”. “Il Registro della Fondazione Italiana Sindromi Mielodisplstiche (FISiM) raccoglie dati, su base volontaria, relativi a 6.000 pazienti, ma manca una registrazione ufficiale dei parametri epidemiologici – continua la Prof.ssa Santini, che è anche presidente FISiM -. Sappiamo che la malattia colpisce 4-5 persone ogni 100mila abitanti e, fra gli anziani, si arriva anche a 50 casi ogni 100mila. L’incidenza fra gli uomini è doppia rispetto alle donne. A Firenze, possiamo stimare, ad esempio, circa 500 persone colpite. I pazienti, in Italia, hanno in media 74 anni. L’età avanzata implica difficoltà nella gestione della malattia, in particolare dell’anemia grave, che ne rappresenta la manifestazione più frequente, le cui complicanze sono maggiori negli anziani rispetto ai giovani. Oggi vi è maggiore consapevolezza anche fra i medici di medicina generale, anche se talvolta si giunge ad una diagnosi certa di mielodisplasia solo dopo settimane. I sintomi più frequenti dovuti alla carenza di emoglobina sono rappresentati da stanchezza, perdita di peso, difficoltà respiratorie e battito cardiaco accelerato. L’impatto sulla qualità di vita è enorme, soprattutto per le persone con anemia grave che devono recarsi in ospedale, in alcuni casi ogni settimana, per le trasfusioni di sangue”. Proprio per migliorare la consapevolezza sia fra i clinici che fra i cittadini, il 25 ottobre si è celebrata la Giornata Mondiale delle Sindromi Mielodisplastiche.
“Anche la beta-talassemia costringe i malati a sottoporsi a trasfusioni di sangue ogni 2-3 settimane per tutta la vita e ad assumere ogni giorno una terapia ferrochelante, per evitare i danni causati dall’accumulo di ferro a organi vitali – spiega Maria Domenica Cappellini, Ordinario di Medicina Interna all’Università degli Studi di Milano -. In Italia, vivono circa 7.000 persone con la beta-talassemia trasfusione dipendente, una malattia genetica, ereditaria, causata da un difetto di produzione delle catene globiniche, che costituiscono la struttura dell’emoglobina, la proteina responsabile del trasporto di ossigeno in tutto l’organismo. L’Italia è uno dei Paesi al mondo più colpiti dalla beta-talassemia. La malattia era presente soprattutto tra le popolazioni di aree paludose, poiché la malaria è stato un fattore di selezione naturale del difetto talassemico. Gli individui portatori di difetto talassemico o malati erano quindi più presenti nelle isole, nelle regioni del Sud e nell’area del delta del Po. Oggi la talassemia è uniformemente distribuita in tutta la penisola”.  “I sintomi della beta-talassemia major compaiono già nei primi mesi di vita – sottolinea la Prof.ssa Cappellini – e, se non si interviene con adeguate terapie, le conseguenze possono essere grave anemia, deformazioni ossee (facies talassemica), ingrossamento di milza e fegato, problemi di crescita, complicazioni epatiche, endocrine (ad esempio ipotiroidismo e ipogonadismo) e cardiovascolari. Negli anni Sessanta del secolo scorso, i pazienti affetti da talassemia major non sopravvivevano oltre i 10/15 anni, oggi grazie alla combinazione della terapia trasfusionale e ferrochelante, la loro aspettativa di vita supera la quarta, quinta decade di vita”. “Oggi, per la prima volta, una molecola, luspatercept, ha la potenzialità per cambiare la storia della malattia riducendo la necessità delle continue trasfusioni – continua la Prof.ssa Cappellini -. Consiste in un farmaco iniettabile sottocute ogni 21 giorni, che il paziente in futuro potrà eseguire a casa. Luspatercept riduce l’eritropoiesi inefficace (che è la causa principale delle manifestazioni cliniche della talassemia), consentendo la produzione di globuli rossi maturi. Lo dimostrano i risultati dello studio di fase III, BELIEVE, che sono estremamente suggestivi”. Nello studio (randomizzato, in doppio cieco), pubblicato sul New England Journal of Medicine a marzo 2020, sono stati arruolati 336 pazienti affetti da talassemia trasfusione dipendente in 65 centri di 15 Paesi: 224 pazienti hanno ricevuto luspatercept, 112 placebo. “L’obiettivo primario dello studio era ridurre di almeno il 33% il fabbisogno di trasfusioni (con un calo di almeno 2 unità di sangue) rispetto al basale, cioè alle unità che il paziente era abituato a trasfondere nei sei mesi prima di assumere il farmaco – spiega la prof.ssa Cappellini -. Il risultato è stato raggiunto dal 70% dei pazienti. Il secondo obiettivo era valutare una riduzione superiore al 50% del fabbisogno trasfusionale, osservata in più del 40% dei pazienti. Inoltre, la risposta è stata mantenuta nel tempo. In maniera preliminare, possiamo addirittura affermare che alcuni malati sono arrivati, dopo circa un anno di terapia, a ottenere quasi l’indipendenza dalla trasfusione. Luspatercept può essere somministrato potenzialmente a tutti i pazienti colpiti da beta-talassemia, a differenza di altre opzioni disponibili come il trapianto di midollo, unica terapia che può condurre alla guarigione ma con il limite della disponibilità di un donatore compatibile, o della terapia genica, ancora da consolidare”.
“Anche nelle sindromi mielodisplastiche – conclude la prof.ssa Santini – l’unica terapia definitiva è il trapianto di cellule staminali, praticabile solo in un numero limitato di casi e nei pazienti più giovani, al di sotto dei 70 anni. Nelle forme a più basso rischio, la linea cellulare più colpita è quella dei globuli rossi, con grave anemia che causa sintomi debilitanti. La terapia, in questi casi, è costituita dai fattori di crescita dei globuli rossi come l’eritropoietina, dalle trasfusioni di sangue e dalla terapia ferrochelante. Solo in alcuni pazienti giovani con caratteristiche particolari di malattia e in buone condizioni generali è indicata la terapia immunosoppressiva per abbassare la risposta immunitaria. Luspatercept apre nuove prospettive, come evidenziato nello studio di fase III, MEDALIST, pubblicato sul New England Journal of Medicine a gennaio 2020. Sono stati arruolati 229 pazienti con sindrome mielodisplastica a rischio molto basso, basso o intermedio, con accumulo locale di ferro nei precursori dei globuli rossi, chiamati pertanto sideroblasti ad anello. I pazienti richiedevano emotrasfusioni periodiche e regolari. Due terzi sono stati assegnati al trattamento con luspatercept, i restanti al placebo, entrambi somministrati come iniezione per via sottocutanea ogni tre settimane per almeno sei mesi. Il farmaco è stato ben tollerato. Se si considera tutto il periodo del trattamento, i dati aggiornati indicano che il 47% dei pazienti trattati con luspatercept, contro il 15% del braccio placebo, ha raggiunto l’obiettivo primario dello studio, ovvero la indipendenza dalle trasfusioni per almeno otto settimane, dunque circa 2 mesi. Si tratta di un passo importante verso un netto miglioramento della qualità di vita dei pazienti”.
 

Bibliografia. Cappellini MD, et al. A phase 3 trial of luspatercept in patients with transfusion-dependent β-thalassemia. N Engl J Med 2020; 382:1219-1231.

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